
In un mondo poco distante da noi, ma diverso, lo spirito e la scienza si sono unite: nel Tibet dei Lama un momento importante di questa unione è il Tantra di Kalachakra (Kala-chakra = Ruota del Tempo), un insieme di scritture che comprende tecniche yoga molto articolate per riuscire a vivere l’illuminazione e precise informazioni scientifiche prese da diverse civiltà.
Quella tibetana è una civiltà che non ha mai smesso di reggersi sull’intelligenza e sulla osservazione dei fenomeni, un modo di vivere che non si basa solo sulla “fede”.
Nel loro regno circondato da immense montagne, i tibetani da millenni raccolgono le loro esperienze ed osservazioni sulla coscienza, l’energia, il caso e la sincronia. Studiano l’effetto di minerali, piante e attrazioni planetarie sull’uomo, come anche le relazioni fra la medicina greca, persiana, cinese e indiana con i loro diversi sistemi di conoscenza e modi di comprendere i fenomeni.
Nonostante un’invasione devastante, ancora oggi i tibetani si ricordano questo crogiolo culturale unico e irripetibile sorto dalla loro tempra e da quel Buddhismo “Vajrayana”, cioè “Via del Diamante-Folgore”, il famoso Tantra: hanno questa ricchezza stampata nei loro gesti, nella loro vita.
La forza che la cultura tibetana porta nel mondo è frutto di secoli di addestramento al superamento delle apparenze per raggiungere il vero senso della realtà, anche con humor e in mezzo a una vita durissima, spesso nomadica, anche fra la gente meno abbiente e illetterata. Il “Vero” senso della realtà è vivente, interattivo.
Là anche il pastore analfabeta è partecipe di questa “magia”, e questa pienezza si mostra non solo nella santità dei loro eroi spirituali, ma anche nei canti d’osteria che contengono parole altissime: anche il brigante, per quanto crudele, ha paura di uccidere e gestisce uno strano patto di non belligeranza coi signori del luogo tassando i commercianti, quasi sempre senza assalirli.
Avevano una vita semplice eppure non “medievale”; la differenza di ciò stava nel sopravvivere della scienza del pensiero, non un pensiero centrato in una figura di salvatore religioso o in una teoria generale ma nella saggezza dello spirito, quella che sconfina nella vita, che vibra nel mito, ma si basa sui fatti.
Poche civiltà sono riuscite ad avvicinare in modo così sincero spirito e scienza, umanesimo e ascesi, epos e umorismo, sensualità e misticismo.
Ed il Vajrayana, la “Via del Diamante-Folgore”, il Tantra, si basa proprio su questa ricchezza: è la spiritualità degna di un Re, cioè di chi vuole portare tutta la sua esperienza di vita nello spirito, mentre vive intensamente.
L’iniziazione al Kalachakra è una investitura regale, si ricevono lo scettro, la corona, il nome dinastico, offerte di molti tipi; ma anche ci offriranno acqua con lo zafferano da bere, acqua per pulirci le mani, cibo, vesti di seta e così via.
Questi sono tutti simboli dell’esperienza: lo scettro è il simbolo della nostra innata presenza e della nostra regalità spirituale, la campana è il simbolo della radianza di questo stato, dell’onnipervadenza della Legge-realtà, il Dharma. L’insegnamento del Buddha NON-È-“VERITÀ RIVELATA” ma è visione nuda della realtà vissuta nell’esperienza stessa, nello sguardo aperto e zitto, e non incasellata ancora ed ancora in concetti religiosi.
Un Individuo-Re, quindi un “uomo libero” e non un “suddito”, può solo vivere il mistero di quel poco o quel molto che c’è nella sua esistenza. Non può rincretinirsi per essere un bravo seguace, non può smarrire il senso di sé e del mondo con finti interrogativi, non può temere “l’attaccamento” mentre vede che è la vita stessa che lo porta a vivere con eroismo, intelligenza, equanimità.
La vita pulsa ed è già santa perché ci travolge così, nel bisogno di non essere attaccati alle nostri migliori certezze, nel bisogno di non essere spaventati, perché l’attaccamento più bieco si origina proprio quando vogliamo prendere un frammento e rendergli culto come se fosse il tutto; quindi ci sarebbe anche, non ultimo, l’attaccamento verso la religione. Non solo un’automobile o un assegno mensile possono mettere in ginocchio una mente debole, ma anche una religione vissuta male.
Nel Tantra noi, in quanto Individuo-Re, ci immedesimiamo con la divinità che evochiamo fino a ricordarci di essere la divinità, e come ciò si realizzi in un individuo che cammina, parla e mangia; pratichiamo degli yoga in cui tecniche precise ci consentono di sviluppare il nostro respiro, il magnetismo e la forza del pensiero, entriamo in contatto con facoltà che non sono più quelle che ci sono normalmente “concesse”, ma quelle che ci derivano dal nostro impegno, dal mistero dell’universo e dall’amore dei Maestri.
Eppure non realizziamo il “potere” per dominare gli altri, ma per liberarci sempre più da una mente ristretta.
Ci vuole molto potere per ridere e respirare leggeri, specialmente quando la vita è dura.
Nessuna ideologia, nessuna speranza, nessuna teoria scientifica onnicomprensiva può tanto; l’uomo nel suo pieno mistero è l’origine stessa di tutto e proprio questo alle pendici dell’Himalaya non è un’eresia nascosta, ma è suggerito in ogni canzone, in ogni saluto ed in ogni sguardo. Sono pieni di una fede che sorge dal miracolo, dal potere dei maestri e che inerisce all’illuminazione. La fede non viene richiesta “prima” di vedere, e vedere diventa così un atto di potere.
Anche i luoghi di culto più popolari ed affollati in quel mondo erano e sono luoghi gioiosi, c’è una festa di colori e luci che celebrano la vittoria anche di quei nomadi così poveri che viaggiano a piedi per migliaia di chilometri.
Eppure non si lamentano, sono fieri, e anche loro fanno le loro offerte, anche solo bruciando incenso, lampade di burro rancido e frasche odorose.
L’archetipo è quella forza spirituale che si imprime nelle cose del mondo prendendo forme diverse, per esempio: il cuore, la colomba, perfino la comune graffetta usata per unire i fogli, tutti questi simboli li possiamo percepire come una emanazione dell’archetipo “Amore”.
Nella cultura tibetana il senso dell’“archetipo” non è come nella nostra appannaggio dei poeti, degli psicanalisti o dei filosofi. Là l’archetipo è vissuto dal popolo nella forma delle varie, coloratissime e multiformi divinità, e nei gesti di un rito che si adatta tutti i giorni in modo creativo a una vita dura.
Si inchinano davanti a quel Mistero che è in loro, e poi si rialzano all’interno dello stesso identico Mistero.
Non per presunzione, ma per dignità, oggi cerchiamo quella forza serena, quella irrinunciabile volontà di essere con il nostro respiro ed i nostri atti sul “tetto del mondo”, essendo il tetto del mondo, quello vero, la nostra vita in tutta la sua meraviglia.
Leonardo Anfolsi Reiyo Ekai